Il Fantasma dell'Opera
- Beatrice Di Santo
- 4 feb 2021
- Tempo di lettura: 5 min
Aggiornamento: 21 feb 2021
Ma in fondo, chi l’aveva visto? Circolano tanti abiti da sera all’Opera, non necessariamente indossati da fantasmi, ma quello aveva una peculiarità che non tutti gli abiti neri hanno: copriva uno scheletro. [1]
Sapevo in cuor mio che prima o poi avrei dovuto affrontarlo! Grande protagonista del primo Novecento, aria da me cantata per molti anni con l’orchestra [2], Il Fantasma dell’Opera torna ora a tormentarmi in una nuova sfida, ovvero scrivere l’articolo a suo riguardo. È un romanzo che mi tocca molto l’anima e desidero rendergli giusto onore con la mia riflessione. Forse il lettore conosce già il riferimento all’Opéra di Parigi come ambientazione della vicenda, questo meraviglioso e, a parer mio, inquietante teatro dal momento che ho voluto visitarlo anni fa e ne sono rimasta colpita come da Cupido.
Ricordo all’entrata, sotto il porticato, una maschera bacchica che un po’ impauriva il mio sguardo, il quale è rimasto presto abbagliato dagli interni. L’imponente scala centrale, le opulente sale dorate con un’infinità di luci sospese che si riflettevano in alcuni specchi, allungando a dismisura gli spazi già ampi e maestosi, questi lampadari luccicanti e allo stesso tempo effimeri, come fossero davvero lumi di candele pronte a spegnersi alla prima folata di vento. Una grande scala a chiocciola, in particolare, ha catturato la mia attenzione, mi pareva arrivasse fino al tetto, l’ho percorsa per un paio di minuti, vedevo la luce aprirsi sopra la mia testa, poi mi sono sentita smarrita e sono tornata indietro, emozionata, tale la bellezza estraniante di questo labirinto aureo. Durante la discesa, ho trovato una finestrella da cui osservare, in silenzio e in preghiera, l’ambiente sottostante.

Ho notato inoltre alcune statue alate in una nicchia collocata alquanto in alto e io, appoggiata alla finestrella, avevo raggiunto in linea d’aria la loro altitudine e quasi mi sentivo parte di un mondo olimpico, lontano dal terreno mortale, ammiravo altresì il mosaico floreale librarsi sopra di me. Che cornucopia di colori e lucentezza questo mondo di sopra! Se, per le mie sensazioni, possa questa realtà rappresentare l’Olimpo, mi sovviene quasi agghiacciante l’immagine delle ombre di sotto! Un Ade sotterraneo, sicuramente altrettanto labirintico, dove le nostre menti si perdono in raffigurazioni di mostri. E proprio tra questi è annoverato il protagonista del romanzo di G. Leroux, Il Fantasma dell’Opera, Edizione speciale per Lampi di stampa, TEADUE 1994, p. 135, cit.
Immaginate, se potete, la maschera della Morte che di colpo si anima, prende vita, per esprimere con i suoi quattro fori neri – degli occhi, del naso, della bocca – la collera forsennata, il furore supremo di un demonio senza sguardo nelle orbite vuote – perché, come ho scoperto più tardi, i suoi occhi di brace sono percepibili soltanto nella notte più profonda. Incollata al muro, dovevo essere l’immagine dello Spavento, come lui lo era dell’Orrore.
Così il fantasma è descritto da Christine, la cantante da lui catturata, la quale ribadisce più volte la figura infernale del suo rapitore paragonandolo a Caronte traghettatore a p. 127 ma con il viso coperto da una maschera nera che le ricorda Otello. A questa maschera però Christine soccombe per attrazione fatale, lei stessa si giudica “attratta, affascinata, sedotta” dimostrando che l’incanto può coincidere con la morte. [3]
Questa triplicazione aggettivale, topos delle formule magiche, è una scala in crescendo per la giovane donna, in contrapposizione con il suo rapimento che rappresenta certamente una discesa agli inferi, dove la cantante si sente prigioniera a tutti gli effetti e paragona quel luogo a una tomba a p. 132.
La morte è dunque colonna portante del nostro romanzo e il protagonista ne è la completa manifestazione, avviluppato in uno scuro mantello, abitatore dei sotterranei teatrali, apparizione fulminea e grottesca per gli addetti all’Opéra, come per il capomacchinista Joseph Buquet all’inizio del nostro racconto. [4]
Eppure tutta quest’oscurità svela qualcosa di concreto e paradossalmente divino, cioè una voce, come scopriamo alle pp. 120-123. Non una qualunque, bensì una voce irresistibile e armoniosa, un canto angelico che desta Christine e addirittura l’avvicina a intessere un rapporto con il nostro fantasma, il quale diventa per la donna un vero maestro di vocalizzi. Nella sua identità celata, il mostro riesce ad avere il controllo sulla cantante, promettendole il raggiungimento dell’arte eterna.
Un sicuro indizio di morte è proprio quest’espressione a p. 120. Nulla a questo mondo è eterno tranne la morte, appunto. [5] “Facevo parte del gregge di Orfeo. […]” dice inoltre Christine a p. 130, alludendo alla forza persuasiva e psicopompa della musica, l’unica attenuante per tutto l’orrore provato. Interessante notare che alla pagina precedente la giovane donna precisa che il sentimento non collima con l’odio, anzi, a tratti sente addirittura tenerezza per il rapitore che inizia a svelare qualcosa di umano, oltre alla voce, ecco le lacrime di p. 132. Un mostro capace di piangere e amare, dunque. È Christine stessa che ci sottolinea l’amore del fantasma per lei a p. 130 e 132, in un continuo gioco di opposizioni dove non c’è una verità di fondo, se non nascosta nel buio dei sotterranei. Insomma, il fantasma è tanto umano quanto disumano, capace di provare passioni, con un anelito però raccapricciante. È una personalità gelosa, come notiamo a p. 122, e “per certi versi è ancora un bambino presuntuoso e vanitoso […]” afferma il Persiano a p. 208, cit. Se per alcuni aspetti l’idea del bambino può suscitare pazienza e sentimenti positivi al lettore, tuttavia presto troviamo conferma che la fanciullezza del fantasma è solamente pericolosa. Proprio quest’immagine del bambino accompagna l’immagine del disumano, o meglio dell’ostracizzato dal mondo degli adulti. I bambini vivono in un contesto immaginario tutto loro e così anche il nostro protagonista, il quale rifiuta di appartenere al genere umano e il suo dolore si colloca ai limiti dell’umanità, come ci racconta il Persiano a p. 210. Ogni sentimento nel fantasma è amplificato e non filtrato, sicché come egli è un portento nella voce, lo è anche nel macchinoso ingegno di elaborare eventi nefasti: “è il principe degli strangolatori così come il re dei prestigiatori”, p. 216, cit. E la labirintica costruzione dell’Opéra di Parigi può solo aiutare l’estasi di una simile psicologia notturna, dove teatro e vita si confondono in un inganno mortale, come nelle seguenti parole del Persiano che uso per salutarvi e congedarmi dal palcoscenico di G. Leroux, Il Fantasma dell’Opera, Edizione speciale per Lampi di stampa, TEADUE 1994, p. 216, cit.

[1] G. Leroux, Il Fantasma dell’Opera, Edizione speciale per Lampi di stampa, TEADUE 1994, pp. 12-13, cit. [2] Il musical basato sul romanzo esce nel 1986 con musiche composte da Andrew Lloyd Webber. In calce trovate la mia esibizione del brano live © 2008 Art Voice Academy, Orchestra Ritmico Sinfonica Italiana e direttore maestro Diego Basso. [3] G. Leroux, Il Fantasma dell’Opera, Edizione speciale per Lampi di stampa, TEADUE 1994, p. 134, cit. Alla stessa pagina è descritta la similitudine con il Moro di Venezia, Otello. [4] Alle pp. 12-13 l’episodio dell’incontro repentino tra il capomacchinista e il fantasma. [5] Il fantasma possiede inoltre una bara come letto. Egli stesso rafforza la coincidenza tra eternità e morte a p. 133.
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