Bartleby, lo scrivano
- Beatrice Di Santo
- 10 nov 2020
- Tempo di lettura: 3 min
Aggiornamento: 31 gen 2021
Ben ritrovati per una nuova chiacchiera, questa volta su Melville. Ho acquistato questo breve racconto nell’edizione da me molto apprezzata della Garzanti 2020. In poche pagine è condensata una filosofia che preferirei definire come un’estetica del dubbio. Unendo incomprensioni e angosce alle domande che non trovano risposta, Melville realizza un vero e proprio dubbio non solo permeante la mente dell’avvocato protagonista ma anche il lettore assetato di verità. Tuttavia, come sa chi studia filosofia, la verità non esiste e forse non è nemmeno la sponda a cui vuole approdare Melville, anzi l’autore sembra puntare a uno scardinamento totale delle personalità e della storia in se stessa, proprio come una barca che s’infrange contro gli scogli, i cui pezzi restano i soli oggetti da contemplare, non tanto per tentare di ricostruire la storia ma solamente per toccare con mano un frammento di ciò che è stato, che rimarrà per sempre sfuggente, come lo scrivano. L’avvocato, che è la voce del narratore, definisce lo stesso Bartleby un relitto nel mezzo dell’Atlantico a p. 57 e lo scrivano è in senso più ampio metafora della vita, leggibile solamente a spezzoni e per sensazioni.
Parlo d’altronde di estetica nell’accezione ereditata dal greco di sensazioni. Durante la lettura, la mia curiosità di capirci maggiormente su Bartleby è stata grande e sembrava tirarsi come un filo in tensione dove però non ne vedevo né capo né coda e mi costringeva a voltare pagina, immedesimandomi nell’angoscia dell’avvocato protagonista unita all’impotenza di ottenere ubbidienza e seguitamente all’inettitudine di scacciare lo scrivano.
Bartleby risponde alle richieste dell’avvocato non con una negazione ma con una preferenza, che in sé ha il carattere della negazione ma è attenuata dal verbo al condizionale nell’espressione preferirei di no.
È interessante notare che a pagina 34 con l’uso del verbo nel modo indicativo, cioè nelle parole preferisco di no, l’attenuazione è data dalla voce flautata che tuttavia riesce a imporre la sua volontà proprio grazie a quel timbro sottile, esattamente come questo timido strumento musicale talvolta s’impone sugli altri fino a diventarne l’indiscusso solista nei concerti per flauto e orchestra. Le risposte spiazzanti di Bartleby trovano forza anche grazie alla loro ripetitività. L’avvocato stesso si sente scardinato da questa costante e ferma cortesia ravvisabile nelle parole dello scrivano. Recepiamo inoltre che la cortese preferenza non trova nessun motivato fondamento per legittimare il diniego alle mansioni impartite dall’avvocato, il quale esprimerà così il suo dubbio alle pagine 34-35 di H. Melville, Bartleby, lo scrivano, I Piccoli Grandi Libri Garzanti 2020, cit.
Non è infrequente che un uomo, urtato in modo inconsueto e violentemente irragionevole, cominci a dubitare delle proprie convinzioni fondamentali. Comincia, per così dire, a congetturare in modo vago che, per quanto strano, la ragione e il diritto stiano forse dall’altra parte. […]
Ecco che in questo pensiero il termine strano ci riporta a quel mondo di sensazioni di cui prima parlavo. L’avvocato è pervaso da molteplici sentori, si sente infatti urtato e ce lo confermerà anche a p. 38 dicendo di sentirsi irritato e addirittura pungolato da Bartleby, dal suo umore passivo e dalla sua disarmante preferenza.
La vaghezza è un’altra sensazione che inizia a occupare la mente del nostro protagonista fino a fargli congetturare di avere torto. La sua autorevolezza in quanto capo viene meno e quasi comincia a esserci un’inversione di ruoli dove lo scrivano ha la meglio sull’avvocato. Questo rovesciamento possiede qualcosa di grottesco che suscita angoscia e allo stesso tempo qualcosa di carnevalesco che suscita stranezza, ravvisabile dall’avvocato stesso nel proprio corteo di sensazioni.
L’angoscia e lo sfinimento per l’impotenza sono riconducibili al termine barcollando di pagina 40, cit. L’avvocato infatti riceve l’ennesimo rifiuto delle proprie richieste da parte di Bartleby e può solo che trascinarsi alla scrivania barcollando, appunto, esausto di questa continua smielata inottemperanza che porta al fervore di una nuova ostilità.
Barcollando andai alla scrivania e mi sedetti in profonda riflessione. Rispuntò in me un’animosità cieca. Potevo espormi a un altro ignominioso rifiuto da parte di quel disgraziato macilento e squattrinato? Dal mio dipendente? […]
Il narratore si sente addirittura minacciato dal verbo preferire che pare aver influenzato la comunicazione nel suo ufficio poiché egli in persona e un altro dipendente cominciano a usare tale espressione.
E così nel racconto, il disagio per la presenza di Bartleby lascia il testimone al disappunto rintracciabile nella cieca animosità, il disappunto lascia il testimone all’eccitazione di scoprire il contagio del linguaggio a p. 54 e l’eccitazione infine lascia il testimone alla folgorazione quando l’avvocato vede realizzarsi alle pp. 61-62 il proprio timore di trovare lo scrivano appropriato del suo ufficio, come se fosse diventato un bene personale esclusivo di Bartleby.
Ecco che l’avvocato in modo ossimorico prova tra le varie sensazioni sia attrazione sia repulsione e un moto di carità cristiana per il povero Bartleby che tuttavia non riesce a rasserenargli l’animo, il quale rimane interdetto come forse il lettore alla vista delle due esclamazioni a fine racconto.
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