Il deserto dei Tartari
- Beatrice Di Santo
- 1 ago 2020
- Tempo di lettura: 2 min
Aggiornamento: 1 feb 2021
Benvenuti nella mia rubrica di chiacchiere letterarie! Nel mio primo articolo scriverò una riflessione riguardante una mia vecchia lettura, Il deserto dei Tartari di Dino Buzzati nell'edizione di supplemento a Famiglia Cristiana n° 16, Arnoldo Mondadori Editore 1997, p. 146, cit.
Addio dunque Fortezza, con le tue assurde ridotte, i tuoi soldati pazienti, il tuo signor colonnello che ogni mattina, senza farsi vedere, scruta col cannocchiale il deserto del settentrione, ma è inutile, non c'è mai niente.
Questa frase da me scelta parla dell'addio alla fortezza. È un addio particolare, nei confronti di uno stabilimento e non di una persona, eppure c'è bisogno del congedo poiché la fortezza è fortemente personificata. Deduciamo la personificazione già dalla lettera "F" maiuscola e dai seguenti aggettivi possessivi "tue/tuoi/tuo" di cui poi parleremo.
La prima immagine che vorrei approfondire è l'uso del cannocchiale per guardare fino in fondo l'orizzonte del deserto. Il cannocchiale rappresenta la scoperta del nuovo mondo, è lo strumento galileiano che ha rivoluzionato l'epoca dell'uomo, è quindi un'invenzione prettamente umana per una nuova visione, per oltrepassare i confini della natura. C'è dunque una contrapposizione tra il deserto e il cannocchiale, tra questa Natura Assoluta, questa riserva naturale sterminata desolata e lo strumento tecnico che vuole superarla. Tuttavia tale curiositas è smorzata dalla successiva frase avversativa "ma è inutile, non c'è mai niente". Ecco che l'uomo soccombe alla sua natura e alle sue speranze. D'altronde il deserto racchiude in sé la metafora dell'infinita desolazione umana e l'infinita attesa umana del nemico, anticipando la vanificazione. Tutte le conoscenze dell'uomo sono vanificate dal deserto, da questa natura incredibilmente vasta. Tutti i sogni sono desertificati, anche a causa dei limiti del cannocchiale che ci rammenta la nostra finitudine.
Un apostrofo particolare merita la parola d'inizio "Addio", molto drastica, molto netta. Un addio non è un arrivederci bensì una chiusura, un voler abbandonare la vita precedente. Sembra esserci inoltre un gioco di ossimori nella coppia Addio-Fortezza poiché l'addio rappresenta una sensazione di vuoto e abbandono contrapposta alla sensazione di pieno data dalla fortezza. È una struttura che protegge e sostiene l'uomo, soprattutto l'uomo-soldato. È una costruzione guardinga solida massiccia.
Troviamo la stessa sensazione ossimorica nella coppia soldati-pazienti. I soldati sono persone armate e in divisa dunque la nostra mente riceve l'immagine di persone forti. Ma questa forza viene, oserei dire, addolcita dalla pazienza che loro hanno nell'attesa.
Da quest'ossimoro che pertiene alla fortezza e ai soldati, cioè a coloro che vivono e percorrono la struttura, possiamo notare che esiste un legame misterioso tra lo stabilimento e l'uomo-soldato. Indice di questo legame è la personificazione della fortezza con la seconda persona singolare e con gli aggettivi possessivi. Usando i termini "tuoi/tuo" scopriamo che alla fortezza appartengono sia i soldati sia il colonnello e non viceversa. L'uomo infatti, anche al grado più alto, non ha dominio sulla fortezza. L'uomo non possiede la fortezza. Essa possiede l'uomo. In questo paradosso sta il mistero, la fortezza sembra un luogo con una forza soprannaturale inspiegabile che in qualche maniera trattiene le vite umane così che l'unico scopo diventa servire la fortezza, dunque servire l'aspettativa di veder arrivare il nemico dal deserto. È molto difficile rompere questo velo di mistero quasi sacrale e andarsene dall'edificio. Per andarsene ci vuole un addio, cioè una chiusura totale per finalmente sentirsi liberi.
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